TESTO CRITICO STEFANO ZECCHI

Difficile esplorare l’universo femminile: ha una complessità simbolica che non appartiene a quello maschile. “Simbolicità” è concetto che indica una valenza di significati che sfugge a una precisa determinazione del valore, è apertura a continui rimandi di senso, come una costellazione astrale che pare ben definita a un primo sguardo e poi illude nella sua possibilità di essere colta una volta per sempre in ogni sua sfumatura.

Non è un caso che l’artista maschio-lo scrittore, il pittore, lo scultore- abbia, come soggetto privilegiato della sua narrazione, la donna, appunto perché in quell’analisi viene messa alla prova la sua intelligenza, la sua sensibilità di penetrare e appropriarsi dell’ampia articolazione del mondo femminile. Da qui nasce quel sentimento maschile destabile e comprensibile al tempo stesso che si chiama “possesso”. L’astista uomo sublima questo sentimento attraverso la sua vocazione espressiva, cosa preclusa a chi non ha questo dono: e infatti, il più delle volte, la persona “comune”, il “non-artista”, finisce per esibire la sua volontà di possesso in un arco di azioni che vanno da quelle più patetiche a quelle più violente.

Caratteristica convenzionale della maschera è la sua coperture dell’autenticità: è lo strumento che consente di immaginare ciò che dietro di esso si nasconde. Si toglie la maschera si svela la verità. Per questo, le riflessioni sulle modalità di strappare il velo che occulta la realtà sono state un banco di prova della filosofia in un’incessante, storica valutazione di ciò che sono capaci sia una coscienza etica votata alla ricerca della verità, sia una conoscenza critica in grado di distinguere l’apparenza dall’essenza. C’è voluto Nietzsche per mettere in ordine in questa problematica filosofica cercando … disordine, negando la possibilità di distinguere l’apparenza dalla realtà. Quello steso disordine lo colgo nell’opera della Pellin.

Nella donna questa situazione si capovolge: mentre ella, a differenza dell’uomo, sublima il sui desiderio di possesso materiale, vuoi attraverso la rinuncia, vuoi attraverso la sofferenza, vuoi attraverso la rassegnazione – spesso con una disponibilità accorta e intelligente ad accettare e vivere ciò che è possibile – quando entra nel mondo dell’arte ha una capacità straordinaria di possedere, senza troppe sofisticate letture, l’universo simbolico che appartiene al suo stesso genere.

Quella variabilità di interpretazioni a cui va incontro l’uomo (non solo l’artista) quando ha di fronte l’anima di una donna, l’artista donna (soprattutto lei) è implacabile nella capacità di metterla a nudo, cogliendo con lucidità magistrale la complessità simbolica dell’esistenza femminile.

Questa è la premessa che mi è necessaria per parlare dell’opera di Cinzia Pellin. Se uno scrittore intende raccontare ciò che vede, ha bisogno di una grande perizia nella scrittura: conoscere le diverse sfumature di parole in apparenza simili, gli intrecci grammaticali, i virtuosismi sintattici.

Perché una cosa è raccontare, altra è narrare, dove l’invenzione e l’arbitrio soggettivo sono necessari ed essenziali.

Cinzia Pellin racconta, innanzitutto: e grazie ad una capacità di disegnare con una naturale perizia di altissimo livello tecnico, dando plasticità straordinaria all’immagine. Ma, come la precedente rigorosa distinzione tra il raccontare e il narrare è solamente teorica, perché in realtà i due piani, quello del racconto e della narrazione, s’intrecciano e solo la prevalenza dell’uno sull’altro determina quale sia lo specifico genere letterario, così la Pellin esprime la propria tensione narrativa del colore, che inquina la precisione del racconto.

I suoi volti – cifra identitaria dell’arte della Pellin – sono maschere.

Le maschere della Pellin non coprono niente: sono esse stesse verità, non c’è un’apparenza che cela una verità da indagare. L’anima femminile è colta, in essenza, attraverso quella maschera; la conoscenza della simbolicità è racchiusa nella capacità di comprendere i segni di quella maschera, che, appunto, non nasconde niente.

È una vera e propria sfida quella della Pellin alla comprensione della verità di una donna, e non è casuale che le sue opere più intriganti siano i ritratti – le maschere – di donne. E, infatti, altro elemento decisivo del racconto/narrazione della Pellin, è la bellezza.

La bellezza è per convenzione un attributo specificamente femminile, a cui la Pellin non solo non intende rinunciare, ma vuole declinarlo con evidenza e chiarezza nella sua opera. La strada espressiva della Pellin diventa così inevitabilmente rischiosa e la sua sfida ancora più temeraria.

L’arte contemporanea nelle sue manifestazioni più acclamate, è entrata in un vicolo cieco. Dopo le rivoluzioni formali delle grandi Avanguardie artistiche del Novecento, che hanno avuto la loro forza di rappresentare il “nuovo” fino agli anni Sessanta del secolo scorso, hanno progressivamente perso la loro energia. A sua volta, la categoria della bellezza è stata espulsa dal giudizio estetico. La fine delle rivoluzioni formali e la rinuncia ostile al concetto di bellezza hanno come risultato un’idea di esteticità artistica che indifferentemente dice tutto e il contrario di tutto, che non esprime nessun senso se non il retorico compiacimento dell’assenza di senso, esibito con patetiche trasgressioni, con ripetitive provocazioni, con disgustose blasfemie.

La via d’uscita è tentare, provare un continuo esercizio formale che affronti la rappresentazione simbolica dell’esserci, in cui la ricerca della bellezza non è un’aristocratica nostalgia della classicità, ma un’esperienza di verità del linguaggio, essendo sempre la “bellezza” progetto, utopia, costruzione, rifiuto consapevole delle forme e delle manifestazioni dissolutive, reattive, del nichilismo in tutte le sue espressioni retoriche. L’opera della Pellin entra nel vivo di questa problematica con una decisiva volontà femminile di non arrestarsi di fronte alla complessità simbolica del femminile, per poterla raccontare e narrare, per smascherarla attraverso le sue maschere.